Misterele nedescifrate ale Siberiei ...
I MISTERI IRRISOLTI DELLA SIBERIA, UN LUOGO PIENO DI SEGRETI ..
La Siberia è una vasta regione della Russia che copre quasi tutta l’Asia settentrionale e comprende una grande parte della steppa eurasiatica.
Si estende a est a partire dagli Urali fino all’Oceano Pacifico, e dall’Oceano Artico verso sud fino alle colline del Kazakistan centro-settentrionale e fino ai confini con la Mongolia e la Cina.
La Siberia, il cui nome significa “terra che dorme”, è luogo oggetto di numerose leggende, nate dalla scoperte di diverse tombe antiche, enigmatici insediamenti e strani manufatti, una serie di antichi ed irrisolti misteri che circondano questa regione del pianeta Terra.
1. Le cupole di metallo (Olgius)
La Repubblica di Yakutia (conosciuta anche come Jakutia o Sakha), si trova nella Russia nord-orientale (Siberia), a sud della tundra artica in Russia ed è conosciuta come il luogo abitato più freddo del pianeta Terra.
E’ qui che si trova la taiga siberiana, un vasto tratto di foresta di conifere prevalentemente arido, completamente incontaminato e inesplorato come la giungla amazzonica, e che si estende su un territorio disabitato per più di 100 mila chilometri quadrati nella parte occidentale della Yakutia.
Privo di qualsiasi tipo di strada, il territorio è in gran parte coperto da una fitta foresta, con numerosi alberi sradicati, vaste paludi e consistenti sciami di zanzare. Praticamente, lo scenario ideale per l’ambientazione di miti e leggende su strane creature e fatti misteriosi.
E’ proprio in queste terre che, secondo i racconti locali, dimorerebbe il Chuchuna, la creatura umanoide conosciuta anche come Yeti o Big Foot. Ma c’è un mistero più affascinante che avvolge la Valle della Morte. Nei pressi del bacino superiore del fiume Viliuy, c’è una zona difficile da raggiungere che porta i segni di un tremendo cataclisma avvenuto circa 800 anni fa e che ha sradicato quasi l’intera foresta, spargendo frammenti di roccia per centinai di chilometri quadrati.
Il nome antico di questa zona è Uliuiu Cherkechekh, che si traduce, appunto, come Valle della Morte, dato che per gli abitanti del luogo chi si avventura questa zona difficilmente può uscirne vivo. Secondo i racconti degli abitanti locali, l’intera area sarebbe piena di strane e innaturali strutture metalliche a forma di cupola, situate in profondità nel permafrost e rilevabili in superficie a causa del loro colore visibilmente in contrasto con le vegetazione naturale.
I cacciatori nomadi solitari hanno descritto le cupole come delle grandi case di ferro (kheldyu) impiantate nel terreno perennemente ghiacciato. Sembra siano fatte di un metallo simile al rame nell’aspetto ma, a differenza del rame, non può essere scalfito o danneggiato. Nessuno è mai stato in grado di tagliare anche un frammento.
Alcune di queste caldaie – la forma ricorderebbe quella di una pentola capovolta – hanno un’apertura sulla parte superiore, con una scala a chiocciola che conduce fino a una galleria circolare con diverse camere interne. Nonostante i -40° gradi esterni, i cacciatori affermano che gli interni risultano essere piacevolmente caldi.
Gli anziani del luogo chiamano le enigmatiche strutture olgius, ma ne ignorano l’origine. Le leggende fanno risalire la loro costruzione ai demoni della taiga, Niurgun Bootur e Tong Duurai. Inoltre, sanno molto bene quanto sia pericoloso avvicinarsi alle strutture metalliche. Si riportano, infatti, alcuni degli effetti che le caldaie hanno sulla vegetazione circostante e sul corpo delle persone che hanno stazionato nei loro pressi per troppo tempo.
Alcune storie raccontano di alcuni audaci cacciatori che avrebbero passato la notte in queste stanze metalliche, utilizzandole come rifugio. Una volta tornati tra la loro gente, i cacciatori sembravano aver contratto una strana malattia, e coloro che vi avevano trascorso più di una notte di fila, presto morirono. Per questo motivo, gli anziani delle tribù locali hanno dichiarato queste zone maledette, e quindi proibite.
Storie recenti
Esistono storie recenti di viaggiatori che si sono avventurati nella Valle della Morte, imbattendosi nelle misteriose cupole. In epoca antica, la zona era parte di un percorso utilizzato dal popolo nomade degli Evenchi, che partiva da Bodaybo fino ad arrivare sulla costa del Mare di Laptev e l’esistenza delle cupole maledette era nota a loro soltanto.
La prima testimonianza indiretta delle cupole risale al 1853, quando Richard Maack, il noto esploratore, antropologo e geografo russo, uno dei primi ad avventurarsi nella lontana Russia orientale e nella Siberia, riporta nei suoi resoconti:
A Suntar, un insediamento Yakut mi è stato detto che nel corso superiore del fiume Viliuy si trova un enorme cupola di metallo affondata nel terreno. [...] La sua dimensione è sconosciuta in quanto è visibile solo il cerchio che emerge dal terreno.
Qualcosa di simile verrà affermato 1989 da D. Arkhipov, antropologo esperto delle cultura Yakut:
Tra la popolazione del bacino del Viliuy esiste una leggenda che risale ai tempi antichi e che narra dell’esistenza, nella parte alta di quel fiume, di enorme cupole di bronzo o olguis.
Nel 1936, lungo il fiume Olguidakh (che significa luogo del calderone), un geologo incaricato dagli anziani indigeni si imbatté in quello che aveva tutta l’area di essere una enorme cupola di metallo liscio, di colore rossastro, sporgente dal suolo e con un bordo talmente affilato da tagliare la carta. Le pareti dell’oggetto erano spesse circa due centimetri e, secondo la relazione ufficiale, era possibile vedere l’interno della cupola attraverso un foro posto sulla parte posteriore.
Nel 1979 una spedizione archeologica partita da Yakutsk cercò di individuare il luogo descritto del geologo, ma i mutamenti del territorio e della vegetazione avvenuti in più di quarant’anni non consentirono di ritrovare l’oggetto misterioso. Inoltre, come spiegano gli abitanti del luogo, data la fitta vegetazione, nella foresta si può passare a 3 metri da qualcosa senza nemmeno notarla.
Tra i resoconti più accurati, c’è quello di Mikhail Korecky da Vladivostok, il quale nel 1996 inviò una lettera al quotidiano Trud dove affermava di essere stato nella Valle della Morte per ben tre volte. La prima fu nel 1933, quando aveva 10 anni; la seconda nel 1937 e infine nel 1947 con alcuni amici. Korecky affermava di aver individuato sette cupole tra i 6 e i 9 metri di diametro.
Nell’ultima visita alle cupole, Korecky e i suoi amici trascorsero la notte in una di esse. Benché quella notte non successe nulla di particolare, nei giorni a seguire uno dei suoi compagni si trovò a perdere quasi tutti i capelli, mentre Korecky sviluppo due piccole pustole sulla guancia che non si sono mai più rimarginate.
Nel 1971, un vecchio cacciatore evenchi, affermò di aver trovato una tana di ferro nel terreno, dentro la quale aveva notato i corpi di strani esseri con un occhio solo, vestiti con una sorta di costume di ferro. Benché si fosse reso disponibile ad accompagnare chiunque volesse a visitare il misterioso sito, nessuna delle autorità volle credere al suo racconto.
Strani fenomeni nella Valle della Morte
Le leggende Yakuy sulla Valle della Morte contengono molti riferimenti a esplosioni, trombe d’aria e sfere di fuoco fiammeggianti che volteggiano in aria. E tutti questi fenomeni, in un modo o nell’altro, sono connessi con le misteriose strutture di metallo che si trovano nella valle. Si narra che, all’inizio del secolo scorso, fu vista una sfera di fuoco incandescente emergere dal foro principale di una delle cupole e salire verso l’alto sotto forma di una sottile colonna di fuoco.
Il fenomeno fu accompagnato da un boato sordo, simile al suono registrato durante le esplosioni nucleari. Dopo aver raggiunto una notevole altezza, la sfera incandescente volò via, lasciando dietro di sé una lunga “scia di fumo e fuoco”. Gli ufologi russi hanno proposto due teorie sulle cupole della Valle della Morte.
Secondo la prima ipotesi, le cupole potrebbero essere i rottami di un’antica astronave distrutta in un incidente o in una battaglia aerea. La seconda ipotesi, avanzata dal ricercatore russo Valery Uvarov e decisamente più intrigante, afferma che le misteriose cupole della Siberia potrebbero essere un’antica arma costruita dagli extraterrestri per proteggere il nostro pianeta da eventuali pericoli esterni, tipo meteoriti o altri alieni ostili.
Il sistema di difesa, composto da numerose cupole interrate, sarebbe collegato ad una centrale elettrica costruita nelle profondità del suolo e capace di operare automaticamente, proteggendo la Terra dalle minacce cosmiche. Uvarov è convinto che il sistema di difesa extraterrestre sia entrato in funzione tre volte negli ultimi cento anni: nel 1908 abbattendo il famoso meteorite di Tunguska; nel 1984 distruggendo il bolide di Chulym, penetrato nell’atmosfera fino all’altezza di circa 100 chilometri e, più recentemente, il meteorite Vitim nel 2002.
Quando qualche anno fa Uvarov avanzò questa ipotesi, riportò anche un significativo aumento dei livelli di radiazione nella zona e il progressivo abbandono dei boschi della fauna selvatica nella zona della Valle della Morte, dando al ricercatore russo l’impressione che il sistema si stesse preparando a scongiurare una minaccia imminente.
Con il senno di poi e alla luce del quasi impatto meteoritico registrato il 14 febbraio 2013 sopra i cieli della Russia centrale, sugli Urali, qualcuno ipotizza che il sistema sia entrato in funzione una quarta volta, così da scongiurare un impatto che potrebbe essere stato catastrofico: qualcosa ha distrutto il meteorite che stava per colpire gli Urali?
Una nuova spedizione confermerebbe l’esistenza delle cupole
Recentemente, un team di scienziati e di esploratori russi è tornato dalla Valle della Morte affermando di aver trovato la prova di almeno cinque cupole metalliche. “Siamo andati nella Valle della Morte per indagare e capire se le cupole metalliche raccontate da tante testimonianze esistono per davvero. Effettivamente, abbiamo trovato cinque oggetti metallici sepolti nelle paludi”, ha dichiarato lo scienziato a capo del team, Michale Visok, il quale ha descrittole seguenti caratteristiche degli oggetti:
1) Ciascun oggetto è immerso in una piccola pozza paludosa della profondità di 2-3 metri;
2) Gli oggetti sono decisamente di metallo;
3) La parte superiore degli oggetti è molto liscia al tatto, ma ci sono sporgenze molto affilate ai bordi esterni;
4) Due membri del team si sono ammalati gravemente durante l’esplorazione;
5) Il team di ricerca è composto d 3 geologi, 1 astrofisico, 1 ingegnere e 3 assistenti di ricerca.
Alla domanda su cosa il team pensa di aver scoperto e se potrebbe trattarsi di qualcosa costruita da Antichi Astronauti, Visok si è rifiutato di commentare. “C’è sicuramente qualcosa di strano là fuori, ma non abbiamo idea di cosa sia o per cosa sia stato utilizzato”, si è limitato a dire lo scienziato russo. Visok e il suo team hanno in programma un’altra spedizione, nella quale spera di recuperare un campione dagli oggetti metallici utilizzando una punta di diamante, ma si è detto molto cauto sulla possibilità di scalfire questi oggetti, qualsiasi cosa essi siano.
2. Il misterioso cratere Patomskiy
ALIENO NEL CRATERE DI PATOMSKIY
Quando nel 1949 Vadim Kolpakov si imbatte una strana forma geologica a forma di imbuto nella regione di Irkutsk, in Siberia, non aveva la minima idea che la sua scoperta avrebbe innescato uno dei più controversi misteri scientifici dei nostri tempi.
Il geologo russo si trovò di fronte ad un enorme cono convesso con un incavo a forma di imbuto e una collina arrotondata nel centro, molto simile ad un nido d’aquila con uovo conservato al suo interno.
Successivamente, l’enigmatico cratere fu denominato Patomskiy a causa del fiume che scorre nei suoi paraggi. Kolpakov ha provato a recarsi nuovamente sul sito, senza riuscire ad organizzare un viaggio scientifico per raccogliere campioni da analizzare ma, dopo di lui, numerose spedizioni hanno avuto luogo permettendo do avanzare qualche ipotesi.
Innanzitutto si è cercato di individuare l’epoca in cui si è venuto a creare il cratere. Secondo gli studi degli scienziati siberiani, il cratere si è formato tra i 300 e i 350 anni fa. La suddivisione del cratere in zone fa pensare a processi geologici ancora in corso, forse causati da gas che si sprigionano dalla base del cratere.
Ma come si è creato?
L’origine del cratere Patomskiy ha sconcertato per decenni gli scienziati, i quali hanno avanzato una moltitudine di teorie. La maggior parte di essi ritiene che il nido d’aquila sia il risultato di un impatto meteoritico, anche se nessuna traccia di materiale è stata trovata a sostegno della teoria.
Inoltre, secondo i geofisici dell’Istituto di Geofisica di San Pietroburgo e dell’Istituto Yekaterinburg, i crateri meteoritici hanno una forma molto diversa. Fino a poco tempo fa, alcuni scienziati addirittura credevano che il cratere fosse stato causato da un frammento del meteorite caduto a Tunguska.
“Dal momento che la spedizione del 2006 è giunta a conclusione, riteniamo che l’origine del cratere Patomskiy sia il risultato di processi geologici”, ebbe a dire Viktor Antipin, dottore in Scienze Geologiche e Mineralogiche, in una conferenza tenutasi a San Pietroburgo nel 2010. “Certamente non ci sono argomenti validi sul fatto che il cratere sia il frutto di un impatto con un meteorite”. Tuttavia, restano sconosciuti i processi geologici che si celano dietro la comparsa del cratere siberiano.
Sono state avanzate anche altre teorie, tra cui un’esplosione nucleare segreta, oppure il materiale di risulta di una miniera gulag per i lavori forzati, ma nessuna fonte storica, ne la logica, attesta l’esistenza di un campo di lavoro forzato in una zona tanto remota della Siberia. Non può essere nemmeno un vulcano, dato che la regione non è interessata da fenomeni simili.
Il fatto che il cratere sia ‘vivo’, nel senso che la sua forma cambia continuamente, innalzandosi e abbassandosi, e che gli alberi nelle vicinanze del sito sembrano crescere molto più velocemente degli altri, aggiunge mistero al mistero.
Nonostante le numerose spedizioni e la grande quantità di campioni (basto pensare che l’anno scorso è stata raccolta mezza tonnellata di campioni), le origini e la natura del cratere Patomskiy rimangono un enigma.
3. I megaliti di Gornaya Shoria
Siberia i più grandi megaliti
Grandi megaliti Gornaya Shoria
Un nuovo sorprendente sito megalitico è stato individuato nella Siberia meridionale, sul Monte Shoria, nei pressi di Gornaya Shoria.
Il sito mostra una serie di enormi blocchi apparentemente di granito, che sembrano essere stati appiattiti, sagomati e adattati per essere impilati alla maniera ‘ciclopica’.
Si tratta di blocchi davvero enormi, forse troppo per essere posizionati da normali esseri umani. Proprio per questo alcuni pensano che si tratti di un bizzarro scherzo della natura che ha sagomato i blocchi così da farli apparire artificiali.
Certamente la Russia (e la Siberia) non è estranea ad ospitare antichi siti megalitici, Basta pensare ad Arkaim, oppure ai cerchi di pietra della Bashkiria, per rendersi conte che, tutto sommato, il sito di Gornaya Shoria non sarebbe fuori posto in questo territorio.
Tuttavia, il problema è dato dalle sue dimensioni mastodontiche. Se fosse artificiale, si tratterebbe di un sito unico nel suo genere, in quanto i blocchi sarebbero certamente i più grandi mai lavorati da mani umane nella storia del pianeta Terra.
Come spiega l’archeologo John Jensen sul suo blog personale, i super-megaliti sono stati trovati e fotografati per la prima volta da Georgy Sidorov, nel corso di una spedizione sulle montagne della Siberia meridionale.
Non sono indicate le misure dei blocchi di pietra, ma dal confronto con le sagome delle persone, i megaliti sembrano essere molto più grandi (fino a 2-3 volte) rispetto a quelli conosciuti in altri siti archeologi, come quello di Baalbek, per esempio. Alcuni dei megaliti di Gornaya Shoria potrebbero raggiungere tranquillamente il peso di 3-4 mila tonnellate.
Dopo che la scoperta è stata divulgata, alcuni hanno ipotizzato che il sito di Gornaya Shoria possa essere la prova di un’antica civiltà perduta capace di incredibili opere di ingegneria che, nonostante la nostra tecnologia moderna, non saremmo in grado di replicare.
Altri, invece, ritengono che sia necessaria una certa cautela. Sebbene le immagini sono convincenti e all’occhio dell’osservatore sia difficile trovare una spiegazione naturale, i blocchi potrebbero essere semplicemente il risultato di una bizzarra erosione naturale.
In ogni caso, il sito di Shoria necessita ulteriori sopralluoghi e studi da parte di esperti del settore. Al momento abbiamo solo immagini che, sebbene siano abbastanza impressionanti, non sono in grado di fornire nessuna spiegazione conclusiva.
Siberia i più grandi megaliti
Grandi megaliti Gornaya Shoria
Un nuovo sorprendente sito megalitico è stato individuato nella Siberia meridionale, sul Monte Shoria, nei pressi di Gornaya Shoria.
Il sito mostra una serie di enormi blocchi apparentemente di granito, che sembrano essere stati appiattiti, sagomati e adattati per essere impilati alla maniera ‘ciclopica’.
Si tratta di blocchi davvero enormi, forse troppo per essere posizionati da normali esseri umani. Proprio per questo alcuni pensano che si tratti di un bizzarro scherzo della natura che ha sagomato i blocchi così da farli apparire artificiali.
Certamente la Russia (e la Siberia) non è estranea ad ospitare antichi siti megalitici, Basta pensare ad Arkaim, oppure ai cerchi di pietra della Bashkiria, per rendersi conte che, tutto sommato, il sito di Gornaya Shoria non sarebbe fuori posto in questo territorio.
Tuttavia, il problema è dato dalle sue dimensioni mastodontiche. Se fosse artificiale, si tratterebbe di un sito unico nel suo genere, in quanto i blocchi sarebbero certamente i più grandi mai lavorati da mani umane nella storia del pianeta Terra.
Come spiega l’archeologo John Jensen sul suo blog personale, i super-megaliti sono stati trovati e fotografati per la prima volta da Georgy Sidorov, nel corso di una spedizione sulle montagne della Siberia meridionale.
Non sono indicate le misure dei blocchi di pietra, ma dal confronto con le sagome delle persone, i megaliti sembrano essere molto più grandi (fino a 2-3 volte) rispetto a quelli conosciuti in altri siti archeologi, come quello di Baalbek, per esempio. Alcuni dei megaliti di Gornaya Shoria potrebbero raggiungere tranquillamente il peso di 3-4 mila tonnellate.
Dopo che la scoperta è stata divulgata, alcuni hanno ipotizzato che il sito di Gornaya Shoria possa essere la prova di un’antica civiltà perduta capace di incredibili opere di ingegneria che, nonostante la nostra tecnologia moderna, non saremmo in grado di replicare.
Altri, invece, ritengono che sia necessaria una certa cautela. Sebbene le immagini sono convincenti e all’occhio dell’osservatore sia difficile trovare una spiegazione naturale, i blocchi potrebbero essere semplicemente il risultato di una bizzarra erosione naturale.
In ogni caso, il sito di Shoria necessita ulteriori sopralluoghi e studi da parte di esperti del settore. Al momento abbiamo solo immagini che, sebbene siano abbastanza impressionanti, non sono in grado di fornire nessuna spiegazione conclusiva.
4. L’enigma di Arkaim
VIDEO Arkaim Documentary
Le pietre circolari del Wiltshire sono diventate famose, conquistandosi il loro posto nella cultura popolare di tutto il mondo.
Eppure, con somma sorpresa, ci si sta rendendo sempre più conto che Stonehenge non è l’unico esempio ci cerchio megalitico del mondo.
Gli archeologi calcolano che su tutta la Terra esistano circa 5 mila strutture simili, alle coordinate geografiche più disparate, indice del fatto che questa costruzione aveva un significato fondamentale per i nostri antenati.
L’Inghilterra, quindi, non ha il monopolio dei cerchi megalitici. Alcuni dei più interessanti monumenti del genere si trovano all’interno dei confini dell’ex Unione Sovietica. Arkaim, è uno di questi.
Аркаим (in russo), è considerato da alcuni come il sito archeologico più importante ed enigmatico del nord Europa. Il sito è oggetto di polemiche ed è a volte indicato come la Stonehenge della Russia. Si trova alla periferia della regione di Chelyabinsk, negli Urali meridionali, appena a nord del confine con il Kazakistan.
Il sito viene generalmente datato al 17° secolo a.C., anche se sono state proposte datazioni antecedenti, fino al 2000 a.C. L’insediamento apparteneva alla cultura di Sintashta-Petrovka, un’antica cultura dell’età del bronzo vissuta nella parte settentrionale della steppa eurasiatica, al confine tra Europa Orientale ed Asia Centrale, nel periodo compreso tra il 2100 ed il 1800 a.C.
Le prime bighe conosciute sono state trovate nelle tombe di Sintashta, e questa cultura è considerata la probabile origine di questa tecnologia, che in seguito si espanse in tutto il Vecchio Mondo e giocò un ruolo importante nelle antiche tecniche di battaglia. Gli insediamenti di Sintashta sono anche importanti per l’incredibile attività di estrazione del rame e di lavorazione del bronzo, insolita per una cultura della steppa.
Il sito venne scoperto nel 1987 da un team di scienziati di Chelyabinsk che stavano pianificando la realizzazione di un lago artificiale proprio in quell’area. I primi scavi furono diretti da Gennadii Zdanovich, inizialmente i ritrovamenti furono praticamente ignorati dalle autorità sovietiche ma l’attenzione sul sito crebbe dopo ulteriori scavi archeologici. Nel 1991 il sito venne designato riserva culturale e nel 2005 venne visitato da Vladimir Putin.
L’insediamento di Arkaim copre un’area di 20 mila metri quadrati . Attorno alle mura di Arkaim vi erano campi arabili irrigati tramite un sistema di canali. Si compone di due cerchi di abitazioni separate da una strafa, con una piazza centrale.
I primi esploratori attribuirono anche un altro nome ad Arkaim, ‘Swastika City’, almeno per un paio di ragioni. La prima dovuta alla planimetria del sito, che (con una certa fantasia) può apparire simile al simbolo della svastica, seppur con le braccia arrotondati collegati a un anello centrale al posto di una croce.
La seconda ragione è dovuta al fatto che il sito è attribuito alla cultura Sintashta-Petrovka, la proto-razza ariana, a cui apparterrebbero tutti i popoli indoeuropei, in un’erronea trasposizione sul piano biologico delle famiglie linguistiche. Sono in molti a voler considerare Arkaim come il luogo di origine della ‘razza bianca superiore’, anche se la scienza ufficiale non da alcun valore a questo ragionamento.
Al di là dell’associazione politicamente scorretta, il sito è oggetto di grande interesse da parte degli archeoastronomi, ed è qui che sta la ragione della sua associazione a Stonehenge. E’ noto da tempo che il sito inglese fu costruito per l’osservazione astronomica. Il sito permette l’osservazione di 10 fenomeni astronomici grazie a 22 elementi, mentre Arkaim ne consente l’osservazione di 18 con 30 elementi.
Da questo punto di vista, sembrerebbe che Arkaim è un osservatorio astronomico migliore rispetto al suo omologo inglese. Secondo l’archeologo russo K.K. Bystrushkin, Stonehenge offre una precisione di osservazione con uno scarto di 10 minuti d’arco, mentre Arkaim offre una precisione di 1 minuto d’arco. Si tratta di una precisione sconcertante considerata l’antichità del sito. Per ottenere la stessa precisione bisognerà attendere il lavoro di Almagesto di Grecia circa 2 mila anni dopo.
Potrebbe sembrare ovvio per alcuni, ma il fatto che questi siti fossero apparentemente concepiti come osservatori astronomici, e perfino come calendari, prima ancora delle intuizioni degli Egiziani e dei Greci, costringe ad attribuire a queste culture preistoriche un indice di complessità e raffinatezza che finora non è stato ancora riconosciuto, fino ad ipotizzare l’esistenza di una civiltà sconosciuta o perduta nel lontano passato della storia umana.
Arkaim è solo un esempio della ricca collezione archeologica nascosta nel territorio russo. Purtroppo, buona parte di essi sono andati perduti a causa del progresso industriale, come il sito di Sarkel, una fortezza in pietra dell’830 a.C. Distrutta dal governo sovietico nel 1952 per la costruzione del Bacino di Cimljansk.
Inoltre, a causa della segretezza e della mancanza di cooperazione accademica durante la guerra fredda, numerosi siti devono ancora essere esplorati e analizzati e, forse, moltissimi altro sono ancora da scoprire.
VIDEO Arkaim Documentary
Le pietre circolari del Wiltshire sono diventate famose, conquistandosi il loro posto nella cultura popolare di tutto il mondo.
Eppure, con somma sorpresa, ci si sta rendendo sempre più conto che Stonehenge non è l’unico esempio ci cerchio megalitico del mondo.
Gli archeologi calcolano che su tutta la Terra esistano circa 5 mila strutture simili, alle coordinate geografiche più disparate, indice del fatto che questa costruzione aveva un significato fondamentale per i nostri antenati.
L’Inghilterra, quindi, non ha il monopolio dei cerchi megalitici. Alcuni dei più interessanti monumenti del genere si trovano all’interno dei confini dell’ex Unione Sovietica. Arkaim, è uno di questi.
Аркаим (in russo), è considerato da alcuni come il sito archeologico più importante ed enigmatico del nord Europa. Il sito è oggetto di polemiche ed è a volte indicato come la Stonehenge della Russia. Si trova alla periferia della regione di Chelyabinsk, negli Urali meridionali, appena a nord del confine con il Kazakistan.
Il sito viene generalmente datato al 17° secolo a.C., anche se sono state proposte datazioni antecedenti, fino al 2000 a.C. L’insediamento apparteneva alla cultura di Sintashta-Petrovka, un’antica cultura dell’età del bronzo vissuta nella parte settentrionale della steppa eurasiatica, al confine tra Europa Orientale ed Asia Centrale, nel periodo compreso tra il 2100 ed il 1800 a.C.
Le prime bighe conosciute sono state trovate nelle tombe di Sintashta, e questa cultura è considerata la probabile origine di questa tecnologia, che in seguito si espanse in tutto il Vecchio Mondo e giocò un ruolo importante nelle antiche tecniche di battaglia. Gli insediamenti di Sintashta sono anche importanti per l’incredibile attività di estrazione del rame e di lavorazione del bronzo, insolita per una cultura della steppa.
Il sito venne scoperto nel 1987 da un team di scienziati di Chelyabinsk che stavano pianificando la realizzazione di un lago artificiale proprio in quell’area. I primi scavi furono diretti da Gennadii Zdanovich, inizialmente i ritrovamenti furono praticamente ignorati dalle autorità sovietiche ma l’attenzione sul sito crebbe dopo ulteriori scavi archeologici. Nel 1991 il sito venne designato riserva culturale e nel 2005 venne visitato da Vladimir Putin.
L’insediamento di Arkaim copre un’area di 20 mila metri quadrati . Attorno alle mura di Arkaim vi erano campi arabili irrigati tramite un sistema di canali. Si compone di due cerchi di abitazioni separate da una strafa, con una piazza centrale.
I primi esploratori attribuirono anche un altro nome ad Arkaim, ‘Swastika City’, almeno per un paio di ragioni. La prima dovuta alla planimetria del sito, che (con una certa fantasia) può apparire simile al simbolo della svastica, seppur con le braccia arrotondati collegati a un anello centrale al posto di una croce.
La seconda ragione è dovuta al fatto che il sito è attribuito alla cultura Sintashta-Petrovka, la proto-razza ariana, a cui apparterrebbero tutti i popoli indoeuropei, in un’erronea trasposizione sul piano biologico delle famiglie linguistiche. Sono in molti a voler considerare Arkaim come il luogo di origine della ‘razza bianca superiore’, anche se la scienza ufficiale non da alcun valore a questo ragionamento.
Al di là dell’associazione politicamente scorretta, il sito è oggetto di grande interesse da parte degli archeoastronomi, ed è qui che sta la ragione della sua associazione a Stonehenge. E’ noto da tempo che il sito inglese fu costruito per l’osservazione astronomica. Il sito permette l’osservazione di 10 fenomeni astronomici grazie a 22 elementi, mentre Arkaim ne consente l’osservazione di 18 con 30 elementi.
Da questo punto di vista, sembrerebbe che Arkaim è un osservatorio astronomico migliore rispetto al suo omologo inglese. Secondo l’archeologo russo K.K. Bystrushkin, Stonehenge offre una precisione di osservazione con uno scarto di 10 minuti d’arco, mentre Arkaim offre una precisione di 1 minuto d’arco. Si tratta di una precisione sconcertante considerata l’antichità del sito. Per ottenere la stessa precisione bisognerà attendere il lavoro di Almagesto di Grecia circa 2 mila anni dopo.
Potrebbe sembrare ovvio per alcuni, ma il fatto che questi siti fossero apparentemente concepiti come osservatori astronomici, e perfino come calendari, prima ancora delle intuizioni degli Egiziani e dei Greci, costringe ad attribuire a queste culture preistoriche un indice di complessità e raffinatezza che finora non è stato ancora riconosciuto, fino ad ipotizzare l’esistenza di una civiltà sconosciuta o perduta nel lontano passato della storia umana.
Arkaim è solo un esempio della ricca collezione archeologica nascosta nel territorio russo. Purtroppo, buona parte di essi sono andati perduti a causa del progresso industriale, come il sito di Sarkel, una fortezza in pietra dell’830 a.C. Distrutta dal governo sovietico nel 1952 per la costruzione del Bacino di Cimljansk.
Inoltre, a causa della segretezza e della mancanza di cooperazione accademica durante la guerra fredda, numerosi siti devono ancora essere esplorati e analizzati e, forse, moltissimi altro sono ancora da scoprire.
5. L’orribile storia del Passo Djatlov
Paso Diatlov ; Passo Djatlov ; VIDEO Passo Djatlov
Gli Urali, come noto, formano la catena montuosa che si estende dal nord a sud della Russia occidentale.
Il massiccio roccioso si estende per migliaia di chilometri, a partire dalla costa del Mar Glaciale artico a nord, fino ai confini del Kasakhstan a sud. Dal punto di vista geofisico, gli Urali rappresentano il confine settentrionale tra i continenti di Europa e Asia.
Come molte altre regioni montuose, le tradizioni locali tramandano gli Urali come scenario di strane storie e misteri. Uno degli ultimi avvenimenti, forse il più enigmatico, è accaduto nella zona del Passo Djatlov appena 55 anni fa.
A metà del mese di gennaio dell’anno 1959, un gruppo di giovani sciatori intraprese un’escursione sul Kholat Syakhl, uno dei monti degli Urali settentrionali, comunemente noto come la “Montagna Morta” (nel dialetto locale Mansi, il nome Kholat Syakhl significa Montagna Morta, riferendosi alla totale mancanza di fauna selvatica).
Il gruppo, guidato da Igor Djatlov, era composto inizialmente da otto uomini e due donne, ma uno dei membri, Yuri Yudin, si ammalò e fu costretto a tornare indietro. La maggior parte di loro erano studenti e neolaureati dell’Istituto Politecnico degli Urali . Tutti i membri della spedizione avevano alle spalle esperienza sia di lunghe escursioni sugli sci che di spedizioni di montagna.
I nove avevano come obiettivo quello di raggiungere a piedi le pendici dell’Otorten. I diari e le macchine fotografiche ritrovati attorno al loro ultimo campo hanno reso possibile ricostruire il percorso della spedizione. Il 27 gennaio si misero in marcia da Vižaj verso l’Otorten. Il 31 gennaio il gruppo arrivò sul bordo di un altopiano e iniziò a prepararsi per la salita.
Il giorno successivo, il 1° febbraio, gli escursionisti cominciarono a percorrere il passo. Pare che avessero progettato di valicare il passo e accamparsi per la notte successiva dall’altro lato, ma a causa del peggioramento delle condizioni climatiche, che scaturì nell’inizio di una tempesta di neve, la visibilità calò di molto e persero l’orientamento, deviando verso ovest, verso la cima del Cholat Sjachl.
Quando capirono l’errore commesso, decisero di fermarsi e accamparsi per la notte sul pendio della montagna che avevano raggiunto, in attesa del miglioramento delle condizioni climatiche. Quello che avvenne quella notte non si è mai saputo con precisione, ma a giudicare dalle conseguenze, qualunque cosa fosse, si scatenò un vero e proprio inferno.
Il gruppo aveva concordato che non appena fossero rientrati a Vižaj, Djatlov avrebbe comunicato via telegrafo con la loro associazione sportiva. Gli escursionisti avevano stimato che ciò non sarebbe accaduto più tardi del 12 febbraio. Quando passo quel giorno, nessuno reagì alla mancata comunicazione, dato che un ritardo di qualche giorno in simili spedizioni era una cosa piuttosto normale.
Bisognerà attendere il 20 febbraio perché si organizzi una spedizione di soccorso, quando il capo dell’associazione mandò il primo gruppo di soccorso composto da studenti e insegnanti volontari su richiesta dei parenti degli escursionisti. Successivamente, vennero coinvolti anche la polizia e l’esercito, ai quali fu ordinato di partecipare alle ricerche con aeroplani ed elicotteri.
Quando il 26 febbraio fu trovato il campo dei giovani escursionisti, i soccorritori si trovarono davanti ad una scena inquietante: la tenda sembrava intatta nella struttura, ma la stoffa sembrava fosse stata strappata dall’interno, come se fosse stata danneggiata dagli occupanti in fuga.
“Scoprimmo che la tenda era mezza demolita e coperta di neve. Era tutto vuoto e tutte le attrezzature e le scarpe del gruppo erano al suo interno”, racconta a distanza di anni il signor Sharavin, uno dei soccorritori. Ma dove erano finiti i nove studenti che avrebbero dovuto rifugiarsi sotto la tenda?
Cercando nella neve, i soccorritori scoprirono una serie di impronte lasciate apparentemente da almeno otto persone in fuga dalla tenda devastata. Presto ci si rese conto che le tracce erano state lasciate da persone in fuga a piedi nudi o con una sola scarpa. Cosa a potuto spingere gli occupanti della tenda ad avventurarsi senza scarpe nella neve ad una temperatura di -24° C?
Due serie di orme si dirigevano giù per un pendio, verso una zona densamente boscosa. Sharavin seguì le orme, quando si imbatte in una scena raccapricciante: i corpi congelati di due membri del team, entrambi nudi e scalzi, tranne che per la loro biancheria intima.
Le successive indagini forensi rivelarono che tracce di pelle furono rinvenute nella corteccia degli alberi circostanti i corpi, indicando che i due avevano tentato freneticamente di scalare l’albero, come se volessero fuggire da qualche imminente pericolo.
Gli investigatori si sono chiesti quale “bestia” possa aver spaventato i due al punto da abbandonare i loro vestiti nonostante il freddo gelido e strappare la pelle delle loro mani in un disperato tentativo di mettersi in salvo. Il fatto che non ci fossero tracce evidenti di animali, unito al fatto che i cropi erano praticamente intatti, non ha fatto altro che aumentare lo sconcerto degli investigatori.
Tra gli alberi e la tenda furono trovati i corpi di altri tre escursionisti, tra cui quello di Djatlov. I corpi erano lontani l’uno dall’altro, rispettivamente alla distanza di 300, 480 e 630 metri dagli alberi. Il corpo di Djatlov fu trovato sulla schiena: con una mano si era aggrappato ad un ramo di betulla , mentre con l’altro braccio sembrava proteggersi la testa da qualche aggressore sconosciuto.
Gli ultimi quattro escursionisti furono cercati per più di due mesi. Vennero infine ritrovati il 4 maggio, sepolti sotto quattro metri di neve in una gola scavata da un torrente all’interno del bosco.
Era chiaro che i membri della spedizione erano morti tutti per ipotermia, ma le indagini successive sollevarono una serie di domande, alle quali non fu possibile dare altrettante chiare risposte: perchè i ragazzi avevano lasciato il calore e la sicurezza del loro rifugio? Perchè si sono avventurati all’esterno senza il loro abbigliamento e le scarpe? E perchè non hanno tentato di recuperare la loro attrezzatura dopo aver lasciato il campo?
L’indagine, le polemiche e le domande senza risposta
Le prime autopsie eseguite sui cadaveri complicarono molto il quadro generale: le analisi rivelarono che due dei membri del gruppo avevano i crani fratturati, e altri due, tra cui una delle donne, avevano la gabbia toracica gravemente fratturata. Il dottor Boris Vozrozhdenny paragonò la forza richiesta per causare simili fratture a quella sviluppata da un incidente stradale.
Tuttavia, erano del tutto assenti ferite esterne, tagli o contusioni, come se fossero stati schiacciati da una elevatissima pressione; la donna era inoltre priva della lingua.
Tra le rilevazioni più sconcertanti ci fu certamente quella che riguardava l’abbigliamento di alcuni dei defunti, i quali mostravano presentavano alti livelli di contaminazione radioattiva. Sebbene alcuni scienziati hanno fatto notare che alcune lanterne da campeggio usino reticelle di torio che possono lasciare residui radioattivi sui vestiti dei campeggiatori, i livelli sembravano eccessivamente elevati per essere riconducibili ad una fonte così modesta.
Il verdetto finale fu che i membri del gruppo erano tutti morti a causa di una irresistibile forza sconosciuta. L’inchiesta fu ufficialmente chiusa nel maggio 1959 per assenza di colpevoli. Secondo alcune fonti i fascicoli furono mandati in un archivio segreto e le fotocopie del caso, con alcune parti comunque mancanti, furono rese disponibili solo negli anni novanta.
Nei mesi successivi la strage, infatti, seguirono una di accesissime polemiche. Alcuni ricercatori sostengono che alcuni fatti furono trascurati, forse volutamente ignorati, dalle autorità:
Il dodicenne Yury Kuntsevich, che in seguito diventò il capo della Fondazione Djatlov di Ekaterinburg, partecipò al funerale di cinque degli escursionisti e ricordò che la loro pelle aveva “un’abbronzatura color bruno intenso”.
Un altro gruppo di escursionisti, che si trovava circa 50 km a sud del luogo dell’incidente, riferì che quella notte avevano visto delle strane sfere arancioni verso nord (cioè in direzione del Cholat Sjachl) nel cielo notturno. “Sfere” simili furono osservate con continuità anche a Ivdel’ e nelle zone adiacenti nel periodo tra febbraio e marzo 1959 da vari testimoni indipendenti (tra cui il servizio meteorologico e membri dell’esercito).
Alcuni resoconti suggeriscono che nella zona si trovavano molti rottami di metallo, il che porta a sospettare che l’esercito avesse utilizzato l’area per manovre segrete e potesse essere stato interessato a un insabbiamento della questione.
Chiaramente, data la mole di domande senza risposta e di sospetti insabbiamenti, l’Incidente del Passo di Djatlov è stato oggetto di numerose teorie e speculazioni. Alcuni pensarono che il gruppo fosse stato colpito da una valanga nel cuore della notte, anche se nessun segno del genere è stato trovato nei pressi del campo.
Altri hanno ipotizzato anche ad un attacco del popolo Mansi, anche se non sono state trovate orme che possano avvalorare l’ipotesi, la quale è anche in forte contraddizione con la natura pacifica di tale popolo. Inoltre, le lesioni riscontrate sui corpi sono tutte interne, con l’assenza totale di ferite o escoriazioni cutanee.
Ovviamente, c’è chi non ha escluso anche la possibilità di una fuga disperata dei campeggiatori rispetto ad un contatto alieno del quarto tipo o all’attacco di uno yeti o qualcosa del genere. Ad ogni modo, i fatti sono questi: i campeggiatori sono stati spaventati da un evento sconosciuto; sono riusciti a tagliare o strappare la tenda in un frenetico tentativo di fuga, rispetto a qualcosa che si avvicinava o era già dentro la tenda.
In preda al panico puro, hanno lasciato la tenda senza abiti, né scarpe. Essendo sciatori esperti, avrebbero dovuto essere pienamente consapevoli che non sarebbero sopravvissuti a lungo nelle lande gelide senza nessuna protezione.
Questo indica che la squadra doveva essere convinta che stavano affrontando un pericolo mortale e che avevano scelto di fuggire per salvarsi la vita. Al momento, ciò che resta è la laconica conclusione dell’indagine che indica l’evento come causato da una irresistibile forza sconosciuta.
Paso Diatlov ; Passo Djatlov ; VIDEO Passo Djatlov
Gli Urali, come noto, formano la catena montuosa che si estende dal nord a sud della Russia occidentale.
Il massiccio roccioso si estende per migliaia di chilometri, a partire dalla costa del Mar Glaciale artico a nord, fino ai confini del Kasakhstan a sud. Dal punto di vista geofisico, gli Urali rappresentano il confine settentrionale tra i continenti di Europa e Asia.
Come molte altre regioni montuose, le tradizioni locali tramandano gli Urali come scenario di strane storie e misteri. Uno degli ultimi avvenimenti, forse il più enigmatico, è accaduto nella zona del Passo Djatlov appena 55 anni fa.
A metà del mese di gennaio dell’anno 1959, un gruppo di giovani sciatori intraprese un’escursione sul Kholat Syakhl, uno dei monti degli Urali settentrionali, comunemente noto come la “Montagna Morta” (nel dialetto locale Mansi, il nome Kholat Syakhl significa Montagna Morta, riferendosi alla totale mancanza di fauna selvatica).
Il gruppo, guidato da Igor Djatlov, era composto inizialmente da otto uomini e due donne, ma uno dei membri, Yuri Yudin, si ammalò e fu costretto a tornare indietro. La maggior parte di loro erano studenti e neolaureati dell’Istituto Politecnico degli Urali . Tutti i membri della spedizione avevano alle spalle esperienza sia di lunghe escursioni sugli sci che di spedizioni di montagna.
I nove avevano come obiettivo quello di raggiungere a piedi le pendici dell’Otorten. I diari e le macchine fotografiche ritrovati attorno al loro ultimo campo hanno reso possibile ricostruire il percorso della spedizione. Il 27 gennaio si misero in marcia da Vižaj verso l’Otorten. Il 31 gennaio il gruppo arrivò sul bordo di un altopiano e iniziò a prepararsi per la salita.
Il giorno successivo, il 1° febbraio, gli escursionisti cominciarono a percorrere il passo. Pare che avessero progettato di valicare il passo e accamparsi per la notte successiva dall’altro lato, ma a causa del peggioramento delle condizioni climatiche, che scaturì nell’inizio di una tempesta di neve, la visibilità calò di molto e persero l’orientamento, deviando verso ovest, verso la cima del Cholat Sjachl.
Quando capirono l’errore commesso, decisero di fermarsi e accamparsi per la notte sul pendio della montagna che avevano raggiunto, in attesa del miglioramento delle condizioni climatiche. Quello che avvenne quella notte non si è mai saputo con precisione, ma a giudicare dalle conseguenze, qualunque cosa fosse, si scatenò un vero e proprio inferno.
Il gruppo aveva concordato che non appena fossero rientrati a Vižaj, Djatlov avrebbe comunicato via telegrafo con la loro associazione sportiva. Gli escursionisti avevano stimato che ciò non sarebbe accaduto più tardi del 12 febbraio. Quando passo quel giorno, nessuno reagì alla mancata comunicazione, dato che un ritardo di qualche giorno in simili spedizioni era una cosa piuttosto normale.
Bisognerà attendere il 20 febbraio perché si organizzi una spedizione di soccorso, quando il capo dell’associazione mandò il primo gruppo di soccorso composto da studenti e insegnanti volontari su richiesta dei parenti degli escursionisti. Successivamente, vennero coinvolti anche la polizia e l’esercito, ai quali fu ordinato di partecipare alle ricerche con aeroplani ed elicotteri.
Quando il 26 febbraio fu trovato il campo dei giovani escursionisti, i soccorritori si trovarono davanti ad una scena inquietante: la tenda sembrava intatta nella struttura, ma la stoffa sembrava fosse stata strappata dall’interno, come se fosse stata danneggiata dagli occupanti in fuga.
“Scoprimmo che la tenda era mezza demolita e coperta di neve. Era tutto vuoto e tutte le attrezzature e le scarpe del gruppo erano al suo interno”, racconta a distanza di anni il signor Sharavin, uno dei soccorritori. Ma dove erano finiti i nove studenti che avrebbero dovuto rifugiarsi sotto la tenda?
Cercando nella neve, i soccorritori scoprirono una serie di impronte lasciate apparentemente da almeno otto persone in fuga dalla tenda devastata. Presto ci si rese conto che le tracce erano state lasciate da persone in fuga a piedi nudi o con una sola scarpa. Cosa a potuto spingere gli occupanti della tenda ad avventurarsi senza scarpe nella neve ad una temperatura di -24° C?
Due serie di orme si dirigevano giù per un pendio, verso una zona densamente boscosa. Sharavin seguì le orme, quando si imbatte in una scena raccapricciante: i corpi congelati di due membri del team, entrambi nudi e scalzi, tranne che per la loro biancheria intima.
Le successive indagini forensi rivelarono che tracce di pelle furono rinvenute nella corteccia degli alberi circostanti i corpi, indicando che i due avevano tentato freneticamente di scalare l’albero, come se volessero fuggire da qualche imminente pericolo.
Gli investigatori si sono chiesti quale “bestia” possa aver spaventato i due al punto da abbandonare i loro vestiti nonostante il freddo gelido e strappare la pelle delle loro mani in un disperato tentativo di mettersi in salvo. Il fatto che non ci fossero tracce evidenti di animali, unito al fatto che i cropi erano praticamente intatti, non ha fatto altro che aumentare lo sconcerto degli investigatori.
Tra gli alberi e la tenda furono trovati i corpi di altri tre escursionisti, tra cui quello di Djatlov. I corpi erano lontani l’uno dall’altro, rispettivamente alla distanza di 300, 480 e 630 metri dagli alberi. Il corpo di Djatlov fu trovato sulla schiena: con una mano si era aggrappato ad un ramo di betulla , mentre con l’altro braccio sembrava proteggersi la testa da qualche aggressore sconosciuto.
Gli ultimi quattro escursionisti furono cercati per più di due mesi. Vennero infine ritrovati il 4 maggio, sepolti sotto quattro metri di neve in una gola scavata da un torrente all’interno del bosco.
Era chiaro che i membri della spedizione erano morti tutti per ipotermia, ma le indagini successive sollevarono una serie di domande, alle quali non fu possibile dare altrettante chiare risposte: perchè i ragazzi avevano lasciato il calore e la sicurezza del loro rifugio? Perchè si sono avventurati all’esterno senza il loro abbigliamento e le scarpe? E perchè non hanno tentato di recuperare la loro attrezzatura dopo aver lasciato il campo?
L’indagine, le polemiche e le domande senza risposta
Le prime autopsie eseguite sui cadaveri complicarono molto il quadro generale: le analisi rivelarono che due dei membri del gruppo avevano i crani fratturati, e altri due, tra cui una delle donne, avevano la gabbia toracica gravemente fratturata. Il dottor Boris Vozrozhdenny paragonò la forza richiesta per causare simili fratture a quella sviluppata da un incidente stradale.
Tuttavia, erano del tutto assenti ferite esterne, tagli o contusioni, come se fossero stati schiacciati da una elevatissima pressione; la donna era inoltre priva della lingua.
Tra le rilevazioni più sconcertanti ci fu certamente quella che riguardava l’abbigliamento di alcuni dei defunti, i quali mostravano presentavano alti livelli di contaminazione radioattiva. Sebbene alcuni scienziati hanno fatto notare che alcune lanterne da campeggio usino reticelle di torio che possono lasciare residui radioattivi sui vestiti dei campeggiatori, i livelli sembravano eccessivamente elevati per essere riconducibili ad una fonte così modesta.
Il verdetto finale fu che i membri del gruppo erano tutti morti a causa di una irresistibile forza sconosciuta. L’inchiesta fu ufficialmente chiusa nel maggio 1959 per assenza di colpevoli. Secondo alcune fonti i fascicoli furono mandati in un archivio segreto e le fotocopie del caso, con alcune parti comunque mancanti, furono rese disponibili solo negli anni novanta.
Nei mesi successivi la strage, infatti, seguirono una di accesissime polemiche. Alcuni ricercatori sostengono che alcuni fatti furono trascurati, forse volutamente ignorati, dalle autorità:
Il dodicenne Yury Kuntsevich, che in seguito diventò il capo della Fondazione Djatlov di Ekaterinburg, partecipò al funerale di cinque degli escursionisti e ricordò che la loro pelle aveva “un’abbronzatura color bruno intenso”.
Un altro gruppo di escursionisti, che si trovava circa 50 km a sud del luogo dell’incidente, riferì che quella notte avevano visto delle strane sfere arancioni verso nord (cioè in direzione del Cholat Sjachl) nel cielo notturno. “Sfere” simili furono osservate con continuità anche a Ivdel’ e nelle zone adiacenti nel periodo tra febbraio e marzo 1959 da vari testimoni indipendenti (tra cui il servizio meteorologico e membri dell’esercito).
Alcuni resoconti suggeriscono che nella zona si trovavano molti rottami di metallo, il che porta a sospettare che l’esercito avesse utilizzato l’area per manovre segrete e potesse essere stato interessato a un insabbiamento della questione.
Chiaramente, data la mole di domande senza risposta e di sospetti insabbiamenti, l’Incidente del Passo di Djatlov è stato oggetto di numerose teorie e speculazioni. Alcuni pensarono che il gruppo fosse stato colpito da una valanga nel cuore della notte, anche se nessun segno del genere è stato trovato nei pressi del campo.
Altri hanno ipotizzato anche ad un attacco del popolo Mansi, anche se non sono state trovate orme che possano avvalorare l’ipotesi, la quale è anche in forte contraddizione con la natura pacifica di tale popolo. Inoltre, le lesioni riscontrate sui corpi sono tutte interne, con l’assenza totale di ferite o escoriazioni cutanee.
Ovviamente, c’è chi non ha escluso anche la possibilità di una fuga disperata dei campeggiatori rispetto ad un contatto alieno del quarto tipo o all’attacco di uno yeti o qualcosa del genere. Ad ogni modo, i fatti sono questi: i campeggiatori sono stati spaventati da un evento sconosciuto; sono riusciti a tagliare o strappare la tenda in un frenetico tentativo di fuga, rispetto a qualcosa che si avvicinava o era già dentro la tenda.
In preda al panico puro, hanno lasciato la tenda senza abiti, né scarpe. Essendo sciatori esperti, avrebbero dovuto essere pienamente consapevoli che non sarebbero sopravvissuti a lungo nelle lande gelide senza nessuna protezione.
Questo indica che la squadra doveva essere convinta che stavano affrontando un pericolo mortale e che avevano scelto di fuggire per salvarsi la vita. Al momento, ciò che resta è la laconica conclusione dell’indagine che indica l’evento come causato da una irresistibile forza sconosciuta.
6. L’Evento di Tunguska
La scorsa primavera, presso il Museo Geologico di Stato dell’Accademia Russa delle Scienze, lo scienziato Andrei Zlobin fece una dichiarazione alla luce delle nuove analisi eseguite sui presunti frammenti del corpo celeste caduto nell’estate del 1908 sulla taiga siberiana vicino Tunguska.
I tra frammenti meteoritici furono rinvenuti circa un quarto di secolo fa presso il letto del fiume vicino alla zona dell’impatto.
L’analisi chimica dei residui ha rilevato la presenza di una struttura vetrosa e di quarzo, fattori estremamente rari nei meteoriti.
Fino alla caduta del grosso meteorite nel febbraio dello scorso anno, che ha interessato la regione di Chelyabinsk nei pressi del lago Chebarkul, la maggior parte degli esperti preferivano attribuire l’evento di Tunguska all’impatto di una cometa, forti del fatto che nella regione non erano stati trovati detriti.
Tuttavia, alla luce dell’evento di Chelyabinsk, gli scienziati hanno concluso che in presenza di un cratere da impatto meteoritico, la presenza dei frammenti non è un fenomeno necessario, rivalutando nuovamente l’ipotesi che l’esplosione di Tunguska possa essere stata provocata da un meteorite.
Alla luce delle nuove acquisizioni, gli esperti hanno cominciato a cercare conferme. In particolare, un team di studiosi guidati da Yana Anfinogenova, della Tomsk State University, ha analizzato la cosiddetta ‘Pietra di John‘, una misteriosa roccia rinvenuta nel 1972 da John Anfinogenov in una valle nei pressi del Monte Stojkovic, l’epicentro dell’esplosione di Tunguska.
Come scrive Irina Shlionskaya su la pravda.ru, le analisi hanno rivelato che la composizione chimica della pietra è significativamente differente dalle altre formazioni rocciose presenti nella zona, presentando una struttura vetrosa e la presenza di quarzo. La struttura risulta simile a quella dei campioni studiati da Andrei Zlobin che sono stati analizzati dalle sonde robotiche in missione su Marte.
I risultati dei test delle sonde confermavano la presenza di tracce di quarzo nelle rocce del Pianeta Rosso. Quando Zlobin ha divulgato il suo studio, Natalia Artemyeva, dell’Istituto di Dinamica della Geosfera ha affermato che la “struttura vetrosa e la presenza di quarzo non è nota nei meteoriti”.
I ricercatori hanno suggerito che se su Marte, il pianeta più vicino alla Terra, c’è la presenza di quarzo, non si può escludere la possibilità che uno dei suoi frammenti possa aver provocato l’evento di Tunguska, forse scagliato nello spazio proprio da un massiccio impatto meteoritico avvenuto sulla sua superficie.
Lo studio del team della Anfinogenova, comunque, solleva tante domande almeno quanto lo studio di Zoblin. Dei numerosi meteoriti di origine marziana presenti sulla Terra, finora nessuno di essi coincide con la composizione della Pietra di John.
Da un lato, quindi, non si può escludere l’ipotesi dell’origine marziana del meteorite di Tunguska, ma d’altra parte, non ci sono ancora prove sufficienti per dimostrarlo. Si attendono nuove ricerche per far luce su questo mistero che accompagna l’umanità da più di un secolo.
La scorsa primavera, presso il Museo Geologico di Stato dell’Accademia Russa delle Scienze, lo scienziato Andrei Zlobin fece una dichiarazione alla luce delle nuove analisi eseguite sui presunti frammenti del corpo celeste caduto nell’estate del 1908 sulla taiga siberiana vicino Tunguska.
I tra frammenti meteoritici furono rinvenuti circa un quarto di secolo fa presso il letto del fiume vicino alla zona dell’impatto.
L’analisi chimica dei residui ha rilevato la presenza di una struttura vetrosa e di quarzo, fattori estremamente rari nei meteoriti.
Fino alla caduta del grosso meteorite nel febbraio dello scorso anno, che ha interessato la regione di Chelyabinsk nei pressi del lago Chebarkul, la maggior parte degli esperti preferivano attribuire l’evento di Tunguska all’impatto di una cometa, forti del fatto che nella regione non erano stati trovati detriti.
Tuttavia, alla luce dell’evento di Chelyabinsk, gli scienziati hanno concluso che in presenza di un cratere da impatto meteoritico, la presenza dei frammenti non è un fenomeno necessario, rivalutando nuovamente l’ipotesi che l’esplosione di Tunguska possa essere stata provocata da un meteorite.
Alla luce delle nuove acquisizioni, gli esperti hanno cominciato a cercare conferme. In particolare, un team di studiosi guidati da Yana Anfinogenova, della Tomsk State University, ha analizzato la cosiddetta ‘Pietra di John‘, una misteriosa roccia rinvenuta nel 1972 da John Anfinogenov in una valle nei pressi del Monte Stojkovic, l’epicentro dell’esplosione di Tunguska.
Come scrive Irina Shlionskaya su la pravda.ru, le analisi hanno rivelato che la composizione chimica della pietra è significativamente differente dalle altre formazioni rocciose presenti nella zona, presentando una struttura vetrosa e la presenza di quarzo. La struttura risulta simile a quella dei campioni studiati da Andrei Zlobin che sono stati analizzati dalle sonde robotiche in missione su Marte.
I risultati dei test delle sonde confermavano la presenza di tracce di quarzo nelle rocce del Pianeta Rosso. Quando Zlobin ha divulgato il suo studio, Natalia Artemyeva, dell’Istituto di Dinamica della Geosfera ha affermato che la “struttura vetrosa e la presenza di quarzo non è nota nei meteoriti”.
I ricercatori hanno suggerito che se su Marte, il pianeta più vicino alla Terra, c’è la presenza di quarzo, non si può escludere la possibilità che uno dei suoi frammenti possa aver provocato l’evento di Tunguska, forse scagliato nello spazio proprio da un massiccio impatto meteoritico avvenuto sulla sua superficie.
Lo studio del team della Anfinogenova, comunque, solleva tante domande almeno quanto lo studio di Zoblin. Dei numerosi meteoriti di origine marziana presenti sulla Terra, finora nessuno di essi coincide con la composizione della Pietra di John.
Da un lato, quindi, non si può escludere l’ipotesi dell’origine marziana del meteorite di Tunguska, ma d’altra parte, non ci sono ancora prove sufficienti per dimostrarlo. Si attendono nuove ricerche per far luce su questo mistero che accompagna l’umanità da più di un secolo.
7. I Cerchi nel Ghiaccio sul Lago Baikal
2009 di Vladimir Putin sul fondo del Lago Baikal
Nell’aprile del 2009, gli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale, grazie allo strumento di bordo MODIS, fotografarono due cerchi comparsi sul Lago Baikal, in Siberia, lasciando a bocca aperta gli esperti di tutto il mondo.
Secondo le ipotesi scientifiche, i ghiacci furono causati dalla fuoriuscita di gas metano dal fondo del lago siberiano. Eppure, non può tenersi in considerazione il fatto che il Lago Baikal è da sempre lo scenario di racconti legati agli UFO e a strane cronache raccontate nei dossier militari dell’esercito sovietico venute fuori all’indomani dell’apertura degli archivi secretati.
Vengono riportate le testimonianze di alcuni pescatori i quali affermano di aver visto delle luci molto intense risalire dal fondo del lago per poi planare in volo radente sulla superficie. In uno rapporto del 1982, si racconta di uno strano avvenimento che coinvolse un gruppo di subacquei militari impegnato in una missione di addestramento sul fondo del lago siberiano.
Durante la missione i sub avvistarono un gruppo di creature umanoidi vestite con una tuta color argento. I militari cercarono di catturare gli alieni ma tre dei sette uomini morirono mentre gli altri quattro rimasero gravemente feriti. Alcuni ricercatori e ufologi, si dicono convinti che sul fondo del Lago Baikal esista una base segreta aliena, dalla quale gli extraterrestri monitorerebbero l’attività umana. “Io credo che l’ipotesi di basi sottomarine aliene non debba essere scartata”, afferma Vladmir Azhazha.
Tanti di noi ricordano la “gita” del 2009 di Vladimir Putin sul fondo del Lago Baikal, a bordo del suo mini sommergibile.
Secondo i giornali dell’epoca, il motivo ufficiale della spedizione sarebbe stata l’osservazione di particolari cristalli gassosi strategicamente indispensabili per la politica energetica della Russia. Mmmh ..
Dolmens in Rusia :
RăspundețiȘtergerehttp://www.thelivingmoon.com/43ancients/02files/The_Case_for_Hobbits_Caucasian_Dolmens.html
http://www.ancient-origins.net/news-evolution-human-origins/initial-dna-analysis-paracas-elongated-skull-released-incredible
RăspundețiȘtergerehttp://www.ancient-origins.net/myths-legends-asia/sumerian-king-list-still-puzzles-historians-after-more-century-research-001287
RăspundețiȘtergerehttp://www.ancient-origins.net/myths-legends/warriors-rainbow-prophecy-001577
http://www.ancient-origins.net/myths-legends-unexplained-phenomena-news-mysterious-phenomena-opinion-guest-authors/alien-agenda
http://www.ancient-origins.net/news-evolution-human-origins/ancient-humans-bred-completely-unknown-species-001059